Spesso molti lavoratori firmano, anche in sede sindacale, verbali di conciliazione che sono spudoratamente << marci >> ( lasciatemi passare il termine poco tecnico) ed hanno come scopo solo quello di impedire al lavoratore di chiedere l’accertamento giudiziario dei propri diritti.
La Corte di Cassazione ad esempio (cfr Cass. n. 20780/2007; 13217/2008; 24024/2013 ) ha statuito che “ per poter qualificare come atto di transazione l’accordo tra lavoratore e datore è necessario che contenga lo scambio di reciproche concessioni, sicché, ove manchi l’elemento dell’ “aliquid datum, aliquid retentum”, essenziale ad integrare lo schema della transazione, questa non è configurabile”.
Se un lavoratore riceve solo il suo tfr a fronte della sua rinuncia a qualsiasi ulteriore pretesa derivante dal pregresso rapporto di lavoro, la transazione è nulla anche se la stessa è stata formalizzata in sede sindacale.
Non solo ma è necessario anche che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali deve essere stata effettiva cioè, in base alle concrete modalità di espletamento della conciliazione, sia stata correttamente attuata dai sindacalisti quella funzione di supporto che la legge assegna al sindacato nella conciliazione”.
Devono poi ricorrere altri requisiti perché sia valida la conciliazione in sede protetta.
Il verbale deve essere sorretto dal principio della reciprocità e della proporzionalità tra rinuncia e corrispettivo. Infatti a parere della giurisprudenza ( ed anche il mio….), specialmente di merito, la mancanza di tali presupposti può comportare la nullità del verbale di conciliazione.
In sintesi le reciproche concessioni ex art. 1965 c.c. devono essere commisurate alle reciproche pretese e contestazioni: “la transazione [..] necessita della reciprocità dei sacrifici richiesta dalla formulazione normativa”.
Sono quindi nulli tutti i verbali di conciliazione dove il lavoratore abbia ricevuto una somma solo simbolica.